L’acutizzarsi della crisi del teatro

La direzione artistica di franco Mannino, per una somma di concomitanze negative che ne favorì la rapida conclusione, non durò a lungo. Le sue numerose vacanze, dipendenti dalla sua multiforme attività di direttoriale e concertistica, nonché da quella non trascurabile di fecondo compositore, suscitarono acerbe critiche, dall’interno e dall’esterno del teatro, che lo indussero a rassegnare le dimissioni. Fui ancora una volta incaricato, quindi, di reggere interinalmente il posto vacante e mi adoperai con il massimo impegno perché il teatro non avesse ulteriormente a soffrire in un momento così delicato come quello che attraversava, sempre più irto di divergenze sindacali e di crescenti difficoltà finanziarie.

Tenni la reggenza della Direzione Artistica del San Carlo per oltre un anno, durante il quale mi adoperai febbrilmente perché il suo alto decoro non scadesse di tono; con il rinnovato fervore organizzativo di Pasquale Di Costanzo, presentammo spettacoli di altissimo livello, tra i quali ebbe notevole risalto il luminoso ritorno alla vita dell’”Elisa e Claudio” di Mercadante, da me revisionato in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte del pressoché dimenticato musicista di Altamura.

Il nuovo successo, anche stavolta vivissimo, non bastò tuttavia ad assicurarmi ufficialmente quell’incarico che avevo con tanto impegno e dedizione così a lungo sostenuto. Riunitosi nuovamente il Consiglio di Amministrazione venne fuori il nome del maestro Giulio Razzi, ed a me venne offerta la Direzione di un costituendo Centro di avviamento all’arte lirica che l’ente intendeva formare sotto l’egida del San Carlo.

Ma il progetto non ebbe purtroppo attuazione per l’aggravarsi delle già critiche condizioni finanziarie del bilancio amministrativo ed io continuai pertanto a prestare la mia opera a fianco dell’amico Razzi. Con lui strinsi subito rapporti cordialissimi che mantenni costantemente vivi durante l’intero periodo della nostra affettuosa e fattiva collaborazione.

Assistevamo insieme, da un palchetto di proscenio, ad ogni prova sia di un concerto sia di un’opera lirica ed il nostro commento sulla bravura o sulla mediocrità di un cantante o di un direttore di orchestra finiva per essere sempre determinante per decisioni future. Eravamo quasi sempre d’accordo e ricordo, anzi, con infinita tenerezza alcuni episodi che contribuirono a rafforzare la stima profonda che reciprocamente ci legava. -“Ho ricevuto poc’anzi- mi disse un giorno- un nastro recentemente registrato della “Medea in Corinto” di Simone Mayr; che ne diresti se ne ascoltassimo qualche brano? Mayr fu il primo maestro di Dionizetti e tu per Donizetti hai una predilezione speciale…..”-.

Accettai senz’altro la proposta e la sera stessa ci ritrovammo nel suo studio dinanzi ad un piccolo registratore disposto sul suo scrittoio.

Dopo un breve preludio orchestrale ed un più consistente coro introduttivo che pareva suscitasse in noi un certo interesse, l’ascolto procedette in monotona uniformità, in un implacabile susseguirsi di lunghi recitativi e di alcune aree e pezzi d’insieme di scarso rilievo. Effetto di una poco brillante esecuzione? Ma i nostri occhi che spesso mutamente ma significativamente si incontravano, manifestavano una palese stanchezza.

Il silenzio venne ad un certo momento interrotto dalla timida voce di Razzi: -“Mio caro Rubinetto, che ne diresti se andassimo a cenare?”-. Un mio rapido cenno del capo lo indusse a premere il tasto di arresto del registratore e malinconicamente ci avviammo verso l’uscita. Un’unica laconica considerazione il buon Razzi l’aveva lapidariamente fatta discendendo le scale del teatro: -“ma come si può pensare ad un’esecuzione di quest’opera al San Carlo quando al San Carlo non è mai stata finora rappresentata la Medea di Cherubini?”-. E dell’opera di Mayr non ne parlammo più. Parlammo invece di Caterina Cornaro che io gli avevo proposto di revisionare. Si trattava dell’ultima opera di Gaetano Donizetti, rappresentata al San Carlo nel 1844, pochi mesi prima del riacutizzarsi del terribile morbo che doveva inesorabilmente condurlo alla tomba. Gliene avevo letto alcune pagine al pianoforte ed egli se ne mostro entusiasta, mi getto le braccia al collo abbracciandomi e qualche giorno dopo si ripresentò a me offrendomi un opuscolo illustrato che, con la vita dell’eroica “Regina di Cipro” recava un ritratto a colori che egli avrebbe desiderato inserire nel programma di sala.

“Caterina Cornaro” fu un’autentica rivelazione e le sue impressionanti anticipazioni verdiane, la accesa drammaticità delle incandescenti scene d’insieme, suscitarono entusiastici consensi tanto da indurre la refrattaria RAI a realizzarne una nuova esecuzione.

Ma con Razzi c’eravamo trovati d’accordo anche quando, durante le prove di quella drammatica Turandot che doveva inaugurare la stagione 1972-73, ci accorgemmo insieme che le condizioni vocali della protagonista, il soprano inglese Amy Shuard, che Fernando Previtali, Direttore stabile dell’Orchestra e concertatore dello spettacolo ci aveva a suo tempo indicato, non erano soddisfacenti. In una burrascosa seduta al termine della prova generale, alla quale con noi partecipava il sovrintendente Di Costanzo, Previtali si mostro inflessibile nel sostenere la cantante, ritenendo che ella non aveva dato tutto nelle prove ma che allo spettacolo sarebbe stato diverso.

La serata inaugurale costituì, invece, una vera e propria catastrofe: la Shuard fu solennemente fischiata e dopo il secondo atto rappresentanti dell’orchestra e del coro piombarono in palcoscenico investendo violentemente il Direttore Artistico, ritenendolo unico responsabile di quel deprecabile insuccesso. Dovetti a questo punto ancora una volta apprezzare la esemplare signorilità di Giulio Razzi, che con decisa fermezza d’animo, senza alcuna esitazione, accollò su di se ogni responsabilità, rassegnando pubblicamente le sue dimissioni.

Le vicende del San Carlo andavano sempre più precipitando. Le masse del teatro, anche in concomitanza di un sensibile ritardo del pagamento delle spettanze mensili si misero in agitazione, attuando successivamente l’occupazione del teatro. Contemporaneamente era pervenuta alla magistratura una circostanziata denuncia a carico del Sovrintendente e dell’intero Consiglio di Amministrazione per l’assunzione di alcuni funzionari senza regolare concorso. Il teatro rimase inattivo per alcuni giorni e a Di Costanzo venne addirittura inibito l’ingresso. Il Consiglio di Amministrazione riunito d’urgenza, si pronunziò con un netto voto di sfiducia all’operato del Sovrintendente e fu quello uno dei fattori determinanti per sollecitare il Ministero del Turismo e Spettacolo a nominare un Commissario Straordinario in sostituzione della vecchia gestione ordinaria e per un’opportuna sistemazione amministrativa del glorioso, ma ormai deteriorato, teatro napoletano.

Nel prendere possesso della carica il Dr Beniamino Barbato, alto funzionario della Corte dei Conti, si rivolse a me, forse su indicazione dello stesso ministero, perché lo affiancassi nel suo arduo ed impegnativo compito per il settore artistico. Era un uomo giuridicamente preparatissimo ed in possesso di raro equilibrio e ponderazione, qualità queste che contribuirono a creare fra noi una cordialissima intesa.

La fiducia apertamente dimostratami accentuava in me il desiderio di legare ancora più saldamente il mio nome alla rinascita del teatro ed al suo rilancio verso più alti ed ambiti traguardi. Barbato, di fatti, non soltanto confermò l’impegno che l’ente aveva precedentemente preso con me per la revisione di un’altra opera Donizettiana, “Gemma di Vergy”, quanto ne fissò la rappresentazione per la stagione successiva.

Il mio lavoro continuava quindi, con un ritmo intenso e febbrile, mentre non trascuravo le cure più assidue all’attività del teatro che, malgrado la precarietà della gestione commissariale, dava frutti insperati, sia per la scelta delle opere che per l’apporto di cantanti e direttori di indiscussa reputazione.

E quando accennai a Barbato la possibilità di una trasferta del San Carlo al festival dell’Isola Margherita nella capitale ungherese, egli accolse con fiducia l’ambita ed impegnativa proposta, dandomi “carta bianca” per la realizzazione della difficile impresa. Si trattava di metter su due opere da presentare con artisti, orchestra, coro, e masse tecniche al completo, disponendo mezzi di trasporto e soggiorno nei migliori alberghi del vasto personale occorrente, durante il non breve periodo, di permanenza a Budapest.

Questo ciclopico lavoro organizzativo vide impegnato con me il giovane e valoroso segretario generale del San Carlo, Massimo Apicella, un elemento di provata capacità dotato di sano equilibrio, cui si deve in buona parte la perfetta riuscita della tournée anche dal punto di vista finanziario, in un momento tanto delicato come quello che si attraversava.

Le opere prescelte furono Nabucco ed Otello rispettivamente dirette da Fernando Previtali e da Ugo Rapalo, con un cast artistico che comprendeva cantanti di vasta risonanza come Elena Suliotis, Giuseppe Taddei, Pier Miranda Ferraro, Marisa Chiara, Carlo Cava.

Al termine della trasferta, che si svolse in un clima di serena cordialità, in un susseguirsi di manifestazioni collaterali, ricevimenti ufficiali, gite interessanti alle località di maggior richiamo turistico, le autorità ungheresi manifestarono il più vivo compiacimento per i meritati successi riscossi e l’abbraccio affettuoso con il quale Barbato si accomiatò da me, allorquando l’aereo prese terra sulla pista dell’aeroporto napoletano a viaggio finito, rappresentò per me la ricompensa più ambita.

Ma anche questo periodo favorevole era destinato presto a finire. Gli impegni romani del commissario Barbato, al quale era stato recentemente conferito un nuovo incarico presso la Corte dei Conti, consigliarono i dirigenti del Ministero dello Spettacolo di inviare a Napoli, in qualità di sub commissario, un suo ex funzionario il Dr Domenico De Gregorio che si era da poco avvalso del pensionamento anticipato per benefici militari.

Ebbi subito l’impressione che quella politica che sembrava essere uscita dalla porta del teatro con lo scioglimento del Consiglio di Amministrazione, vi rientrasse invece dalla finestra, con l’avvento del sub commissario De Gregorio.

Beniamino Barbato era di natura assolutamente diversa dal nuovo venuto; chiuso ad ogni imposizione, ad ogni pressione esterna, poteva dirsi che operasse col codice alla mano. Per lui la legge era tutto ed andare contro di essa col suo consenso era impossibile. Non può dirsi, d’altro canto, che la personalità di De Gregorio differisse dalla sua in riferimento ad applicazione di legge; ma era quella certa condiscendenza verso talune segnalazioni “dall’alto” in favore di un direttore o di un cantante, era quel voler considerare quelle segnalazioni senza il supporto di una severa valutazione tecnica, che recavano di De Gregorio e del nuovo clima che veniva fatalmente instaurandosi in teatro, un serio ostacolo al mio sereno lavoro, fino a quel momento sostenuto da un drastico senso di responsabilità che mi consentiva di rispondere soltanto degli eventuali errori commessi da me, anche se in buona fede.

Fu quello, certamente, uno dei periodi più difficili della mia permanenza al San Carlo. Da un alto c’era l’assedio pressante di autentiche mediocrità che stazionavano implacabilmente nell’anticamera per intere settimane; dall’altro l’ossessionante presenza di esponenti sindacali costantemente contestatori per l’inclusione di un solo comprimario o di un solo aggiunto in orchestra appartenete allo schieramento politico contrario.

Un evento inaspettato ebbe a presentarsi in quel momento della mia vita: ero nel mio ufficio a dettare una lettera di risposta ad un artista, quando comparve sulla soglia un mio vecchio amico, il violoncellista Ugo Aiello, che da poco aveva lasciato il teatro, ove aveva lungamente occupato il ruolo solistico in orchestra, avvalendosi dell’anticipato pensionamento per benefici militari. Nominato successivamente, per i suoi titoli e per la sua provata capacità organizzativa, direttore del nascente Conservatorio di Musica di Potenza, veniva ad offrirmi di occupare il posto di professore di Armonia, presso il suo istituto, resosi vacante per l’improvviso trasferimento del titolare.

La lusinghiera offerta mi lasciava tuttavia perplesso; non avevo mai fino a quel momento pensato all’insegnamento ed intraprendere alla mia età quella nuova impegnativa attività mi sconcertava. Ma le vive insistenze dell’amico vinsero ogni mia perplessità e finii per accettare.

Riprendere confidenza con una materia didatticamente abbandonata da tanti anni costituì per me motivo di enorme interesse, ma il godimento maggiore lo provai nel trovarmi bisettimanalmente a contatto con giovanissimi allievi alcuni dei quali estremamente volenterosi ed in possesso di spiccato talento.

Il rituffarmi, sia pur limitatamente, nell’ambiente scolastico valse a compensarmi in parte delle amarezze che continuava a procurarmi la sempre più complessa situazione sancarliana; le giornate trascorse tra i giovani del ridente capoluogo lucano riuscivano a distogliermi temporaneamente dalle continue arrabbiature napoletane, fino a quando tre episodi concomitanti, determinatisi con ambigue manovre, cominciarono a farmi accarezzare con maggiore consistenza l’idea di affrontare una drastica decisione che avevo ormai maturato. Nell’intento di dare un più ordinato assetto al corpo di ballo del teatro, avevo dato inizio ad una serie di approcci con alcuni coreografi di fama internazionale, italiani e stranieri, quando ecco che, ritornato da una delle più o meno lunghe parentesi romane, il Commissario Barbato sottopose alla mia approvazione la nomina di una coreografa da me sufficientemente conosciuta, ma non ritenuto tuttavia all’altezza dell’impegnativo compito. Mi aspettavo l’accendersi di una discussione che mi avesse dato l’opportunità di esporre le mie ragioni, ma il Commissario mi mostrò timidamente un contratto in piena regola, già corredato della sua firma e di quella dell’interessata. Fu una doccia fredda per me ed ingoiai a fatica la pillola, non riuscendo tuttavia a manifestare il mio netto dissenso anche se in quel momento mi rendevo perfettamente conto che quel primo attrito avrebbe sensibilmente dissestato l’esistente equilibrio. Ma di lì a pochi giorni i rapporti già tesi subirono un altro scossone; un’autorità politica regionale sosteneva con insistenza la candidatura di un giovane direttore d’orchestra perché gli venisse affidata la concertazione di uno spettacolo assai impegnativo della stagione, per il quale io avevo pensato – trattandosi di un’opera francese da eseguirsi in edizione originale – ad un rinomato maestro straniero che stavo già contattando. Al mio garbato rifiuto ed alla mia proposta di venire incontro con un’altra opera di repertorio, all’aspirazione del giovane raccomandato, le insistenze presero rapidamente il tono di imposizione, ed a questo punto venne ad inserirsi nella vicenda un nuovo elemento che anziché spianarne la via ad una più ragionevole soluzione, la ingarbugliò maggiormente.

Tra le due organizzazioni sindacali operanti in teatro, già da tempo impegnate in una silenziosa ma attiva competizione, era venuta a determinarsi una decisa spaccatura; ogni avvenimento si prestava a meraviglia per favorire un maggiore inasprimento della lotta. La imposizione politica per quel giovane direttore accese quindi, gli animi del settore sindacale opposto, che era poi quello al quale io politicamente appartenevo.

Mi si pungolava a tener duro, anche a costo di supreme decisioni, e mi si promettevano incondizionate adesioni nell’eventualità di un passo estremo; verso il quale oramai continuavo a sentirmi orientato. Anche in questo caso mi sarei aspettato il sostegno determinante del “vertice”, ma mi sentii vagamente rispondere che “erano in tanti a dirigere in Italia, buoni, mediocri e cattivi, che proprio “quello” non sarebbe certamente stato uno scandalo….”.

I miei nervi andarono in pezzo; un’altra scissione con De Gregorio che sollecitava contro il mio parere la scrittura di una cantante da me stimata nel passato ma non più in grado di sostenere ruoli impegnativi, precedette di poco una nuova subdola manovra tendente ad interferire negativamente nelle mie mansioni direttoriali.

Con opportuno senso di pratica teatrale, avevo intenzione di accompagnare ad un’opera seria in un atto di un musicista contemporaneo napoletano, una fresa opera buffa rossiniana che avesse con vivacità di contenuto e ricchezza di attrattiva, completato con maggiore equilibrio lo spettacolo.

Tra quanti collaboravano con me nella stesura dei programmi non trovai anima viva che convalidasse la mia tesi, e Rossini si vide sostituito, contro la mia volontà, da un altro lavoro drammatico moderno, il cui scarso interesse, la uniformità del linguaggio, determinavano assai scarsi consensi di pubblico e di critica.

Limitata a tal punto l’autonomia direzionale del mio incarico, mi vidi costretto ad inviare una “lettera aperta” al Ministro dello Spettacolo, divulgata attraverso la stampa, nella quale, nel denunziare l’impossibilità di svolgere con sereno spirito la mia mansione, minacciavo di rassegnare le dimissioni, lasciando ad altri il compito di reggere in simili condizioni le sorti di un teatro ove, più che mai, imperava una “certa politica”.

La mia pubblica denunzia non ebbe purtroppo interlocutori, i miei documentati rilievi non vennero nemmeno discussi ed il 1 giugno 1974, recandomi in teatro, trovai che dietro la scrivania del mio ufficio sedeva un mio vecchio collega, uno dei tanti che alla vigilia mi avevano consigliato di “tener duro” di “attuare finalmente quel gesto” che “avrebbe determinato nuovi indirizzi alla futura vita del teatro”!

Un vivo senso di amarezza, mista ad un profondo disgusto si impadronì dell’animo mio, ed affrontai il triste evento con la stessa filosofica rassegnazione che aveva accompagnato le ultime terrene vicende di due miei illustri avi – l’eroico Vescovo Carlo Nicodemi che aveva nel lontano 1798 minacciato di abbandonare la sede di S. Angelo dei Lombardi denunziando coraggiosamente al Re Ferdinando la dissolutezza del clero della sua Diocesi e, molto più tardi, mio nonno Rubino Nicodemi che pubblicamente avversando il Fascismo, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, rinunziando ad una probabile feluca di Accademico d’Italia, preferiva ritirarsi a morire nell’ombra nella sua natia Penta, ove fu ricordato assai più tardi, con l’apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata del suo palazzo ed una strada intitolata a suo nome.

Il mio gesto aveva destato compiacimento in alcuni ambienti politici cittadini che in sulle prime avevano fatto pensare a qualche positiva reazione in mio favore, ma dovetti, invece, malinconicamente constatare che questa “adorabile ed ignobile città” come acutamente la definì l’indimenticabile Giuseppe Marotta, genera i suoi figli per abbandonarli poi in breve al loro destino, come tanti cagnolini bastardi.

Mi rimase, quindi, l’impegno scolastico, al quale mi dedicai con rinnovato ardore, ed il mio silenzioso ed appassionante lavoro di “ricercatore”, che fino ad allora mi aveva dato considerevoli soddisfazioni, ultima delle quali, in ordine di tempo, la donizettiana “Gemma di Vergy” la cui splendida esecuzione ebbe luogo al San Carlo in occasione della manifestazione inaugurale della stagione da me preordinata prima di lasciare il teatro.

Ma la mia attenzione era stata da tempo attratta da un’opera pressoché sconosciuta di un altro grande musicista, inesplicabilmente trascurata per un secolo e mezzo da musicologi di fama internazionale. Si trattava della “Zaira” di Vincenzo Bellini, la cui unica e sfortunata esecuzione, al Ducale di Parma, aveva costituito nel maggio del 1829, uno dei più clamorosi insuccessi nella storia del teatro musicale.

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