Con Di Costanzo al S. Carlo

Entrai far parte del clan sancarliano con un discreto bagaglio di musiche scritte per il Teatro: un’opera già rappresentata e due balletti – “La nascita della Primavera” eseguita al “Teatro delle novità” di Bergamo nel 1957 ed “Il brutto anatroccolo” tratto da una favola di Andersen, presentato dall’Accademia Musicale Napoletana nel 1960 al Teatro Mercadante di Napoli e più volte eseguito come il predente in forma di concerto. Figuravano, altresì, al mio attivo varie composizioni sinfoniche, una “Messa” per coro ed organo, numerose pagine vocali, sonate, brani pianistici, e vantavo, inoltre, una densa conoscenza della produzione lirica del ’700, dell’’800, fino alla ultime creazioni teatrali di questo mezzo secolo; ma era pressoché digiuno dei delicatissimi problemi organizzativi di un grande teatro.

Non si creda che possano bastare uno o più diplomi ed un certo numero di composizioni o di qualche elaborato più o meno erudito di storia della musica per creare all’improvviso un uomo di teatro.

Questo errato convincimento ha favorito assai spesso - e specie in Italia – l’assegnazione di ruoli artistici direttivi ad elementi di scarsa preparazione specifica anche se in possesso di generica cultura, che non contribuiscono certamente all’auspicata divulgazione dell’arte lirica presso le sconfinate messi popolari assetate di conoscenze nuove, insistendo invece sui vecchi schemi del teatro di “elite”, destinato a sparuti gruppi di stanchi nostalgici.

Pasquale Di Costanzo non apparteneva al mondo della cultura, ma possedeva, invece, una innata natura di organizzatore, uno straordinario gusto di artista irrobustito in lui da una più che decennale partecipazione alla vita del teatro, pur se in un settore particolarmente tecnico che gli aveva dato modo di conoscere da vicino le effettive capacità, i meriti, le deficienze, le reali esigenze di macchinisti, elettricisti, scenografi.

Quando a Di Costanzo venne affidato ufficialmente il compito di guidare la immane macchina sancarliana, egli si rese conto che, per potersi sentire autorizzato ad assumersi un onere tanto impegnativo in un campo così vasto che affondava le sue radice nel mondo delle musica, avrebbe avuto bisogno – lui che di musica non conosceva neppure una nota – di servirsi della collaborazione di alcuni fedeli esperti che lo avessero validamente guidato nello spinoso inizio del suo lavoro.

Scarpa, Lunardi, Di Scala furono i suoi primi diretti collaboratori, poi il talento vulcanico di Don Pasquale rese superflua ogni collaborazione ed egli si liberò rapidamente e scaltramente di ogni aiuto e prese decisamente le redini del comando, trasferendosi – forse inconsciamente – nell’antico ruolo del vecchio “impresario”, ricalcando anche se amministrando danaro pubblico, le vecchie orme di un Barbaja o di un Laganà.

Ma furono quelli gli anni più fulgidi del S. Carlo nell’immediato dopoguerra.

Enumerare le fulgide tappe conquistate una dopo l’altra dal nostro glorioso teatro, che tenne in iscacco per circa un decennio finanche la Scala, non è cosa facile. Ma delle più clamorose imprese fu certamente quella di aver portato per la prima volta in Italia il complesso artistico di Bayreuth, con la direzione di Knapperbutsch e con la regia di Wieland Wagner, per la esecuzione integrale di “L’anello del Nibelungo” in lingua originale.

Impresa non meno rilevante fu attuata da Di Costanzo con la clamorosa “rivincita” del soprano Renata Tebaldi dopo l’infortunio toccatole alla Scala in una recita di “Traviata” diretta da De Salata.

E di Traviata, appunto, Di Costanzo pensò di allestire al S. Carlo una memorabile edizione che costituì un autentico trionfo per la Tebaldi, trionfo che si protrasse per ben 25 recite consecutive e che determinò il definitivo rilancio della eletta cantate emiliana.

A fianco di Pasquale Di Costanzo e, principalmente, a fianco di suo fratello Salvatore sono vissuto diuturnamente per circa quindici anni. Da essi non ho certo appreso alcun elemento musicale, né ho aggiornato la mia conoscenza su opere, partiture, direttori o cantanti; ho assimilato, invece, il “mestiere” autentico di come ci si debba regolare nella guida di un grande teatro. “Sasà” Di Costanzo si era reso esperto sulla dinamica di prove e spettacoli ed appariva infallibile nel determinare a distanza il cartellone completo di un’intera stagione, alternando sapientemente opere di difficile ed impegnativa realizzazione ad altre del comune repertorio e di più facile realizzazione. Pasquale aveva, invece, acquisito una eccezionale padronanza ed uno straordinario acume nell’accaparrarsi gli elementi migliori da utilizzare nelle varie opere progettate per ciascuna stagione. Non appena gli giungeva l’eco di un successo riportato da un artista, cercava immediatamente di mettersi in contatto con lui, assicurandosi la sua partecipazione e, non ultimo, cercando di ridurre al minimo le sue pretese finanziarie, talvolta, attraverso interminabili discussioni, al termine delle quali riusciva quasi sempre ad aver ragione.

Sotto la guida di entrambi, e con il successivo intervento del maestro Carlo Jachino, invitato dal Consiglio di Amministrazione dell’Ente, ad occupare il posto di Direttore Artistico, trascorsero alcuni anni, durante i quali il teatro continuò ad operare in un clima disteso e ad un livello di considerevole prestigio e decoro.

Carlo Jachino era non soltanto musicista di ampia e profonda cultura, quanto uomo di spiccata intelligenza e di squisita cordialità. Al suo fianco ho trascorso uno dei più interessanti periodi della mia vita artistica; le nostre lunghe conversazioni aprivano sconfinati orizzonti in ragionamenti sempre più vari ed interessanti, non escluse profonde dissertazioni nel campo di nuove teorie musicali, dalla dodecafonia all’atonalità, dalla musica concreta a quella puntilistica.

Fu in quel periodo che fui tentato di rivolgermi ancora al teatro, dopo la lunga stasi dal lontano “Lorenzino”, interrotta soltanto dai due già citati balletti.

Avevo tempo addietro scritto a Massimo Bontempelli chiedendogli l’autorizzazione di musicare la sua “Guardia alla Luna”, la cui lettura mi aveva vivamente impressionato per l’accesa drammaticità dell’allucinante, anche se assurda, vicenda. Bontempelli mi aveva risposto favorevolmente ed in maniera addirittura commovente, ma la copia che mi aveva chiesto per ridurre egli stesso il dramma a libretto era risultata inadeguata alle mie non brillanti condizioni finanziarie del momento.

Con la morte di Bontempelli mi si era quindi riaffacciata l’idea con maggiori probabilità di riuscita; e mentre sentivo di poter portare a felice compimento, senza ausilio alcuno la riduzione librettistica del testo originale, mi facevo forte della piena adesione a suo tempo offertami in vita dall’autore.

Mi misi febbrilmente al lavoro ed approfittando di un bando di concorso indetto dal Comune di Recanati nel nome del famoso tenore marchigiano Beniamino Gigli, presentai l’opera che avevo portato rapidamente a termine nello spazio di pochi mesi.

Ma anche in questo caso la sorte che sul principio pareva mostrarsi benigna, mi giocò un brutto tiro, che mi costò alcune centinaia di migliaia di lire.

Al telegramma del, Sindaco di Recanati, che mi annunziava l’ambita vittoria, tenne dietro, a distanza di poche ore soltanto, un’energica ingiunzione della sig. Paola Masino, erede di Bontempelli, che impediva l’assegnazione del premio per presunto mancato accordo con l’autore del dramma originario. Seguì una penosa vicenda legale a seguito della quale fui costretto a versare l’ammontare della cifra che a suo tempo mi era stata richiesta dal Bontempelli, senza che questi avesse mai contribuito alla riduzione librettistica dell’opera.

Esauriti intanto, i predisposti fondi per l’esecuzione dell’opera premiata “La guardia alla luna” ritornò ancora “vergine” nel mio scrittoio, ove rimase lungamente ineseguita.

Questo amaro contrattempo fu determinante, rinfocolando in me una più viva partecipazione all’attività del teatro ove intensamente continuavo a svolgere la mia opera con interesse crescente. Nel corso di una delle tante conversazioni che quasi quotidianamente intercorrevano tra il Sovrintendente e me, il discorso cadde sull’attraente argomento del “ripescaggio” di spartiti dimenticati di famosi operisti dell’ottocento.

Di Costanzo mi suggerì l’idea di frugare tra lavori ancora sconosciuti di Verdi ed io pensai subito ad “Alzira”, la prima delle opere scritte dal grande bussetano per il nostro S. Carlo.

Fu quella la prima delle numerose visite da me effettuate alla buona e paziente signora Anna Mandolfo, apprezzata ed esperta direttrice di quella preziosa ed inesauribile miniera celata tra le vecchie e gloriose mura del Conservatorio di S. Pietro a Maiella.

L’accurato esame di quella partitura, protrattosi per alcuni giorni, non mi rese pienamente convinto sulla vitalità e sulla autentica teatralità dell’opera che, nata a Napoli sotto cattiva stella oltre cent’anni prima, aveva indotto lo stesso Verdi a ritenerla definitivamente “mancata”.

Il verdetto negativo, deluse prevalentemente Di Costanzo, che più tardi ebbe in sulle prime a rimproverarmi allorquando “Alzira” venne allestita dal Teatro dell’Opera di Roma, felicitandosi poi con me dopo le unanime critiche sfavorevoli che mi dettero pienamente ragione.

Ma, al voto contrario per “Alzira” si accompagnava una ben altra succulenta proposta: nel frugare tra i tesori della ricca Biblioteca napoletana, il mio occhio era caduto su manoscritto del “Roberto Devereux”, l’ultima delle opere che Donizetti aveva scritto per il S. Carlo nel 1837, prima di lasciare Napoli, a seguito della profonda amarezza che, pur tra tante soddisfazioni e trionfi, la nostra città gli aveva procurato. Nella somma dei ricordi indimenticabili che Pasquale Di Costanzo mi ha lasciato emergono, forse primi fra tutti, la profonda stima e la sconfinata fiducia che egli nutrì per me.

Non conosceva neppure di nome l’opera donizettiana, eppure si affidò completamente a me senza alcuna riserva. Di quella prima esperienza, ormai lontana nel tempo, mi tornano in mente con indicibili emozioni le fasi salienti della delicata operazione di recupero.

Di Costanzo – temendo attacchi e reazioni da parte dei numerosi musicologi fino a quel momento specializzati in materia – non volle assumersi in proprio la paternità dell’iniziativa e, pur lavorando io intensamente nell’ombra, la realizzazione delle partiture e del materiale completo del “Devereux” venne affidata a Casa Ricordi con la mia continua e fattiva assistenza.

Avevo letto in una delle tante biografie del musicista bergamasco che Donizetti, trasferendosi a Parigi, aveva ripresentato al “Theatre des Italiens” il “Devereux”, aggiungendovi una “sinfonia”, ma la partitura autografa napoletana, risultava priva di questo brano, ed io mi detti all’affannosa ricerca di esso, nell’intento di offrire al pubblico l’edizione definitiva dell’opera, completata da un elemento di non trascurabile interesse.

Le mie febbrili ricerche furono presto coronate da successo, per il miracoloso rinvenimento di un frammento isolato esistente presso il “Museo Donizettiano” di Bergamo che riportava nelle battute iniziali le note dell’Inno nazionale inglese e nel secondo “allegro” il tema della “cabaletta” di Roberto.

La mia gioia fu indicibile e gioia ancor più piena provai allorquando, al termine della sua esecuzione, nel corso della prova generale dell’opera, Guido Pannain, che vi assisteva con i maggiori critici convenuti a Napoli per l’occasione, balzò in piedi esclamando: “siamo stati fin’ora tanti imbecilli ad ignorare questo capolavoro!”.

Il successo strepitoso di quella memorabile rappresentazione venne per altro ottenebrato dall’inatteso ed inspiegabile broncio che per circa un mese mi portò tenacemente Di Costanzo, non rivolgendomi la parola se non per questioni strettamente legate al mio lavoro.

Alfredo Parente su “Il Mattino” e Francesco Canessa sul “Roma” si erano espressi con termini così esaltanti da indispettire prepotentemente il caro Don Pasquale che aveva innocentemente finito per credersi l’autentico scopritore del nuovo capolavoro donizettiano.

Quel “dovremmo innalzare sugli scudi Rubino Profeta” che aveva scritto Canessa, Di Costanzo forse non lo dimenticò mai; ma lo spiccato talento organizzativo, lo indusse tuttavia a rivolgersi ancora a me, circa due anni dopo, invitandomi a pensare ad un’altra opera di autore famoso da riportare alla luce. Ed i miei occhi caddero su quella “Zelmira” rossiniana con la quale il sommo pescarese aveva dato l’addio al S. Carlo, portando via con Domenico Barbaja la sua interprete favorita, nonché la donna del cuore, divenuta in breve tempo sua moglie.

Nuovo strepitoso successo arrise a questa mia seconda revisione, anche per il fortunato recupero di un prezioso duetto fra soprano e mezzo soprano, successivamente aggiunto da Rossini, per la recita viennese dell’opera che sbalordì letteralmente, musicologi e critici per la stupefacente anticipazione sul notissimo duetto belliniano fra Norma ed Adalgisa.

Notorietà e fama avevano invero contribuito a darmi in tal campo queste due prime operazioni culturali, ma beneficio alcuno mi era fino a quel punto pervenuto in materia finanziaria, poiché anche la realizzazione ufficiale di “Zelmira” Di Costanzo aveva voluto affidarla a Casa Ricordi.

Fu a questo momento che decisi di puntare fermamente i piedi; non avrei mosso più un dito senza assumerne la piena paternità.

E l’occasione ebbe ben presto a presentarsi: ricorreva il centenario della morte di Giovanni Pacini, uno degli operisti cosiddetti “minori” dell’ottocento, musicista tuttavia assai rinomato, autore di circa sessanta spartiti, che aveva in un certo momento della sua fortunata carriera, dato ombra financo a Bellini.

Il capolavoro di Pacini, per unanime convinzione era ritenuto la “Saffo”, un’opera che scritta nel 1840 per Napoli, aveva ottenuto a suo tempo trionfali accoglienze di pubblico e di critica; Di Costanzo me ne affidò la revisione, assicurandosi, per questa memorabile esecuzione, un complesso artistico di grande prestigio, dalla direzione di Franco Capuana, alla regia di Margherita Wallman ed alla interpretazione superba di Leila Gencer, la stessa che aveva dato vita alcuni anni innanzi alla scultorea figura di Elisabetta di Inghilterra nel donizettiano “Devereux”.

Gli incontri con Capuana ed i rapporti epistolari che ebbi con lui in quel periodo, fanno parte degli episodi più interessanti della mia vita artistica.

Franco Capuana è appartenuto all’ultimo manipolo dei grandi interpreti del repertorio operistico dell’ottocento; la sua profonda conoscenza dei capolavori del teatro musicale italiano e la scrupolosa fedeltà delle sue interpretazioni, che talvolta rasentava il fanatismo, costituivano una seria garanzia per la riuscita di uno spettacolo. Ma a questo si aggiungeva la reciproca stima che ci legava e la nostra stretta collaborazione nel non breve periodo che precedette la memorabile esecuzione dell’opera diede luogo a scambi di idee di singolare interesse. Rimanevamo spesso lungamente a discutere su di uno stacco di tempi, sulle interpretazioni di una cadenza di questo o di quel cantante.

Ed il successo fu addirittura trionfale, ricordo l’applauso entusiastico ed interminabile che coronò il concertato finale del secondo atto, una delle pagine più efficaci e trascinanti dell’intero repertorio melodrammatico ottocentesco! L’eco di quel nuovo successo varcò i confini regionali contribuendo ad aprirmi la via verso ulteriori, insperati traguardi.

Quasi contemporaneamente mi giunse un invito da Venezia ed uno da Parma; per la “Fenice” mi si chiedeva ancora un’opera donizettiana, mentre dal “Regio” mi fu conferito l’ambito incarico di revisionare lo “Stiffelio” verdiano. Accettai entrambe le offerte, ma il lavoro fu massacrante, non soltanto per le difficoltà che mi si presentavano, quanto per le imprescindibili date di consegna, quella parmense in special modo che coincideva con l’inaugurazione della stagione, fissata per la tradizionale sera del S. Stefano del 1968. Per la “Fenice” avevo scelto “Belisario” che Donizetti aveva scritto nel 1836 appunto per la “Fenice”. D’altra parte, “Stiffelio” mi rendeva nervoso per l’eventualità di un intervento da parte dell’Istituto di studi Verdiani”, che in un primo momento si era assunto direttamente il compito della revisione disinteressandosene, poi, definitivamente in seguito.

Le due esecuzioni costituirono per me altrettante lusinghiere affermazioni. Ricordo le entusiastiche accoglienze della “prima” al Regio di Parma, in un serata gelida nevosa e nebbiosa, che aveva registrato un episodio introduttivo poco felice in piazza, con una pubblica tumultuosa protesta per i “fatti di Avola”. Ma in teatro fu ben altra cosa: applausi fervidi e scroscianti dopo la splendente sinfonia, dopo il meraviglioso concertato, dopo l’aria stupenda di Lina, che costituì il trionfale debutto del giovane soprano spagnolo Angeles Gulin, recente vincitrice del concorso voci verdine di Busseto.

Non meno consistente fu il successo del “Belisario” a Venezia; alle calorose acclamazioni del pubblico ed ai consensi unanimi della critica si aggiunse per me l’enorme soddisfazione per le parole pronunziate da Gianandrea Gavazzeni al termine della rappresentazione da lui magistralmente diretta. Egli confessò, infatti, che, così come era accaduto allorquando gli fu parlato per la prima volta del “Devereux”, non aveva creduto nella vitalità prorompente di queste nuove preziose rivelazioni donizettiane; era dunque questo un altro non trascurabile titolo di merito per me e me ne sentii fiero.

Al S. Carlo intanto, mente continuavo a svolgere la mia abituale attività, molte cose andavano fatalmente mutando. Con l’approvazione della nuova legge n. 800 sugli Enti Lirici, venne ad installarsi un voluminoso consiglio di amministrazione, la cui più decisa e netta autorità andò rapidamente a cozzare con le idee conservatrici del Di Costanzo che nel corso delle riunioni, vide più volte osteggiate alcune sue proposte programmatiche.

A questa nuova atmosfera di nervosismo creatasi in seno all’Ente, venne ad aggiungersi la scadenza del mandato direzionale affidato a Carlo Jachino che poneva sul tappeto le opportune discussioni sulla sua sostituzione. Sembrava ormai giunto il momento che il mio nome, maggiormente consolidatosi per quanto avevo finora dato alla vita del teatro, venisse finalmente alla luce; buona parte dei consiglieri, con il caro Alfredo Parente alla testa, si mostravano favorevoli ad una mia candidatura, ma un improvviso colpo di mano del vice presidente, che aveva separatamente concordato la nomina del maestro Franco Mannino senza che essa attraversasse la democratica via della votazione, suscitò vivissime proteste dei dissenzienti che si conclusero con le clamorose dimissioni del Parente e, successivamente, con quelle dell’attuale direttore del Conservatorio Terenzio Gargiulo.

Ma Franco Mannino “passò” ugualmente ed io fui costretto a fare buon viso a cattivo gioco, collaborando con lui, così come avevo fatto con Jachino, in un clima di reciproca cordialità ed amicizia.

La mia intesa con lui fu particolarmente fattiva ed insieme allestimmo un importante calendario di manifestazioni, sia sinfoniche che liriche, che contribuirono ad inasprire i rapporti con il vecchio “leone” Di Costanzo, al quale non andavano a genio le scelte autonome ed i contatti diretti che il nuovo Direttore Artistico aveva spesso con artisti, direttori e registi.

L’inaugurazione della stagione lirica predisposta con una risonante edizione del “Mosè” rossiniano assente dalla scena sancarliana da alcuni anni venne offuscata da un luttuoso episodio, le cui drammatiche fasi resteranno lungamente impresse nella mia memoria.

Era stato prescelto per la direzione del significativo spettacolo Franco Capuana, che vi si era dedicato con l’abituale generoso impegno. Nel corso delle massacranti prove (l’esigenze tecniche dell’impegnativo allestimento scenico lo avevano costretto ad uno stressante lavoro di concertazione) Capuana si ammalò ed i medici accorsi al suo capezzale unanimemente gli consigliarono di rinunziare all’oneroso incarico. Ma soltanto chi non conosceva profondamente la tenace fermezza di carattere del tetragono maestro, poteva pensare ad una simile decisione, e con il solo rinvio di pochi giorni Capuana salì regolarmente sul podio del nostro Massimo.

Rimarrà eternamente vivo in me il ricordo di quel tragico momento in cui Franco Capuana, abbandonata improvvisamente la bacchetta, si accasciava pesantemente sulla partitura appena sfogliata, dopo soltanto pochi minuti di musica. L’impressione fu vivissima. Lo spettacolo venne sospeso ed il maestro, portato rapidamente nel suo camerino, spirava di li a poco ad onta delle premurose cure del medico di guardia del teatro e di numerosi clinici che assistevano alla rappresentazione e che invano si prodigarono per strapparlo alla morte.

La salma, ancora vestita del frac, venne esposta nel ridotto e vi rimase per l’intero giorno successivo per l’ininterrotto e commosso pellegrinaggio della generosa popolazione della sua Napoli, che lo aveva visto giovanissimo allievo del conservatorio di S. Pietro a Maiella e che cinquant’anni innanzi lo aveva visto salire per la prima volta sul podio sancarliano.

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