Sviluppi nel dopoguerra napoletano

Non posso pensare all’immediato dopoguerra senza rivolgere il pensiero ad un’altra figura indimenticabile della vita artistica napoletana che, con la sua dinamica figliola, contribuì a dare vita ad una allora nascente istituzione, giunta oggi ad altissimi livelli di notorietà internazionale per la sua intensa attività concertistica e per la organizzazione di un ormai famoso Concorso Pianistico. Intendo parlare di Donna Ernesta Combatti, diletta consorte del mio primo indimenticabile insegnante di armonia, Daniele Napolitano e di Maria Napolitano Merlino, animatrice instancabile dell’Associazione Michele Napolitano sorta ad iniziativa del padre e del compianto Alfredo Casella.

Donna Ernesta il cui fratello Calogero era legato da stretta amicizia con mio padre, nutriva per me un affetto sincero ed un’ammirazione che anche se talvolta riusciva finanche a confondermi, contribuiva a infondere nuova lena al mio lavoro, incoraggiandomi ad operare con sempre maggior controllo nella tecnica e nello stile dell’arte compositiva.

Ricordo che una sera assistendo a casa mia con la figliola Maria ad una audizione del mio “Trio in la minore” per violino, violoncello e pianoforte, mi incoraggiò con sincero slancio a presentarlo all’Accademia, e fu quello il primo mio ingresso ufficiale nel folto “clan” dei compositori napoletani: ingresso quanto mai contrastato e guardato con dispettosa diffidenza dai “detentori del potere” di quel tempo.

Alla prima esecuzione del mio “Trio” assistette, nella vecchia ed ormai dimenticata Sala Maddaloni, il maestro Alfredo Morelli, che faceva parte della Direzione Artistica del Teatro di S. Carlo, il quale ebbe per me parole di schietto compiacimento. Le sue favorevoli impressioni dovettero certamente far presa nell’animo suo, tanto da indurlo a concedermi il voto favorevole allorquando il mio “Lorenzino” passò al vaglio della Commissione sancarliana, della quale egli faceva parte.

Questo primo successo mi rese ardito e mi indusse a perseguire in questa spinosissima strada, costellata da innumerevoli amarezze e delusioni, anche se qua e là inframmezzata da qualche soddisfazione e da qualche ambito riconoscimento.

Appartengono a quell’epoca appena successiva una mia “Piccola suite” per archi ed il mio “Concertino in mi min” per pianoforte ed orchestra, due composizioni che sono state più volte eseguite con l’apporto di valorosi interpreti e spesso ritrasmesse per radio. Ma la mia vena restava tenacemente ancorata ad espressioni drammatiche, e questo concetto mi è stato costantemente espresso dal mio fraterno amico Viviani che continua ancora a ripetermi che il declamato di Strozzi nel II atto del “Lorenzino” resta una dei brani più efficaci del mia produzione musicale. E così la mia ispirazione fu prepotentemente attratta dal famosissimo ed insuperato “Pianto della Madonna” di Jacopone da Todi, altissimo vertice della espressione drammatica di tutti i tempi.

Cosa importava che la “lauda” di Jacopone fosse già stata rivestita di musica da tanti e tanti musicisti, antichi o contemporanei; quel “Donna del Paradiso” sollecitava in me qualcosa di misterioso e di sovrumano, e mi misi al lavoro con incalzante lena e con una fede ed un entusiasmo che mai fino a quel momento avevo provato.

Fu in quel tempo che mio padre si ammalò; il suo nobile cuore era stato colpito da infarto mentre con la mamma assisteva, nel teatro all’aperto nella Villa Floridiana, ad una recita del “Barbiere di Siviglia”.

Nella camera accanto a quella ove egli giaceva a letto, durante lunghe notti di veglia, nell’eco del suo respiro affannoso attraverso la mascherina dell’ossigeno, scrissi le pagine più commosse ed ispirate dell’oratorio, fra le quali credo che emergono quelle della drammatica descrizione della crocefissione e quella del commiato di Gesù da Maria prima della morte.

La parola “fine”, che apposi alla partitura, coincise fatalmente con la dolorosa dipartita di mio padre, nella notte dell’8 dicembre del 1955 ed è per questo, forse, che tra le tanto mie composizioni io continui a prediligere questa, scritta quasi di getto, in un incalzante fervore creativo.

Per una strana bizzarria della sorte, contrariamente a quanto accaduto ad altri miei lavori, ho dovuto purtroppo dolorosamente constatare come la mia “Crocefissione” abbia incontrato sempre insormontabili ostacoli per la sua esecuzione.

Era appena terminata che mi si presentò subito l’occasione di partecipare con essa ad una edizione del “Premio Napoli” ove l’anno innanzi era stata premiata un’opera del musicista Michele Lizzi oggi immaturamente scomparso.

L’avversità del destino cominciò da quel momento a manifestarsi; era stato nominato presidente della Commissione giudicatrice il maestro Vittorio Gui, che allora non mi conosceva, ma che conosceva bene invece un altro concorrente, il compositore Sandro Fuga, che aveva presentato un Concerto per violoncello ed orchestra.

Attraverso indiscrezioni sulle movimentate fasi eliminatorie della competizione appresi in seguito come i componenti della commissione si spaccassero nettamente in due fazioni, l’una capeggiata dal Gui che propendeva nettamente per Fuga e l’altra tendente in via subordinata alla divisione del Premio ex aequo. Ma Gui tenne duro ed il premio non venne assegnato: piccola debolezza di un grande uomo che, nell’intento di favorire un amico, aveva invece, anche se in buona fede, sbarrato temporaneamente il cammino naturale a due espressioni d’arte legittimamente aspiranti alla vita.

La “Crocefissione” fu poi eseguita al Teatro “Massimo Bellini” di Catania con la direzione di Aldo Faldi e con l’apporto di solisti di canto Elena Suliotis, Ottavio Garaventa, Alberto Rinaldi e del coro guidato da Roberto Maselli, ottenendo un successo notevole di pubblico e di critica. L’indimenticabile Francesco Pastura, eminente critico, nonché profondo studioso e conoscitore dell’arte belliniana, sulle colonne di un quotidiano catanese ebbe ad esprimersi all’indomani dell’esecuzione con toni di incondizionato elogio, riferendosi principalmente alla severità del linguaggio ed alla precisa stilizzazione negli incisivi interventi del Cristo e della Vergine, ricchi di potente espressività.

Sembrava finalmente dischiuso l’auspicato spiraglio di luce a questa mia poco fortunata composizione, quando, ecco, presentarsi sulla sua via un nuovo inaspettato ostacolo. Avevo conosciuto Giulio Razzi, allora autorevole funzionario della Direzione Artistica della RAI durante una conferenza stampa tenuta presso l’Albergo Vesuvio, in occasione di un “Autunno Musicale” organizzato appunto dalla RAI, e gli avevo parlato della mia “Crocefissione”, del successo catanese e delle fondate speranze che io nutrivo per questo mio lavoro. Mostrò di interessarsi vivamente alla mia aspirazione e mi invitò a spedirgli a Roma la partitura dell’opera, perché la guardasse attentamente. Con inaudita ingenuità egli, dimenticando o forse ignorando che numerose musiche mie erano già state radiotrasmesse, pensò bene di affidare la mia partitura ad una Commissione di lettura composta da un gruppo di autorevoli musicisti che, per loro natura, non potevano assolutamente comprendere e giudicare un lavoro il cui sano linguaggio si evidenziava in sostanziale antitesi con le loro aride ed inespressive elucubrazioni avveniristiche.

Mi vidi perciò rispedire, di li a pochi giorni, la partitura con un laconico giudizio che si esprimeva con vaghe parole di chiara e sconfortante incomprensione.

Più tardi, ebbi a vivere più da vicino, sia con Vittorio Gui si con Giulio Razzi; ad entrambi ricordai il loro “errore” ed essi che avevano imparato a conoscermi, a stimarmi ed anche, come l’ultimo specialmente, ad amarmi, si espressero così: “Mio caro Rubino – mi disse Gui un giorno – ricordo vagamente la tua partitura, ma di essa ricordo soltanto la poco ordinata scrittura manoscritta del tuo copista. Per la scarsa chiarezza di una partitura ho avuto costantemente avversione, e questo elemento negativo, ha sempre pesato in maniera definitiva sui miei giudizi. Pensa, per confortarti che uguale sorte toccò a Puccini allorquando lo spartito delle sue “Villi” per identica ragione non fu neppure letto dai Commissari del Concorso Sonzogno che premiò la “Cavalleria rusticana” di Mascagni”.

Giulio Razzi si trincerò invece dietro l’impermeabile paravento burocratico allora vigente presso la RAI che egli aveva lasciato in anticipo: “Vedi, caro Rubinetto, la musica ha fatto un cammino gigantesco ed è arduo, se non addirittura impossibile a chi regge le sorti di una istituzione sottrarsi all’impetuosa ondata prepotente di questo torrente che minaccia di devastare ed annullare i confini di un’arte immortale che da Bach, a Mozart, a Beethoveen, a Verdi, Wagner fino al nostro Puccini, aveva donato al mondo un’eredità di ineffabile bellezza melodica armonica, drammatica!….. Come impedire che i “soloni” del nuovo linguaggio musicale interferiscano in maniera decisiva sulle direttive e nelle decisioni su che cosa si debba dare in pasto agli ascoltatori del nostro tempo? Ecco il perché io abbia lasciato ad altri il compito di soggiacere supinamente a questo aberrante incalzare di eventi”.

La morte di mio padre contribuì in maniera decisiva alla definitiva liquidazione della nostra ultracentenaria azienda dolciaria, le cui condizioni, già precarie in conseguenza del lungo periodo bellico, con le privazioni, i tesseramenti e l’esodo delle famiglie più in vista del popoloso quartiere di “sezione Stella”, erano andate non meno aggravandosi per la crescente rarefazione della più specializzata manodopera e per l’accresciuto gravame fiscale, rendendo inattuabile ogni altro eventuale sforzo.

Venne a determinarsi così l’impellenza di una mia qualsiasi occupazione che avesse dato modo di sopperire alle crescenti esigenze della mia famiglia, all’istruzione superiore dei miei figlioli, i cui maschi Virginio e Giovanni, si erano iscritti rispettivamente alle Facoltà di Giurisprudenza e di Medicina.

Ero entrato in quell’anno a far parte dell’Associazione Napoletana della Stampa, occupando il posto di critico musicale presso la pagina napoletana de “Il Tempo” di Roma, successivamente passai al “Corriere di Napoli” ove ora mi trovo.

Veniva ad inserirsi intanto nella mia vita la figura di un eletto amico, Alfredo Parente, da me conosciuto appunto negli anni della “resistenza”, quando il nostro quartiere era stato particolarmente impegnato nella lotta contro il tedesco invasore.

Critico musicale del “Il Mattino”, Parente frequentava assiduamente il S. Carlo non soltanto per l’espletamento del suo specifico compito, quanto per l’affetto e la reciproca stima che lo legava al suo Sovrintendente, Pasquale Di Costanzo, che reggeva da qualche anno le sorti del nostro massimo.

Fu lui che, in uno dei tanti cordiali colloqui che, tra un atto e l’altro di una rappresentazione o di una prova d’orchestra, soleva avere con Di Costanzo, lanciò a bruciapelo una proposta che doveva insperatamente suscitare oltre che comprensione immediato accoglimento.

Erano i giorni di una specie di “rivolta” tra i dipendenti del S. Carlo e quei moti avevano determinato le dimissioni di Guido Pannain che fino a quel momento aveva svolto mansioni di “consulente artistico” del teatro (periodo aureo dell’attività musicale sancarliana con le prime italiane del “Wozzeck” di Alban Berg , del “Padmavati” di Roussel, del “Bolivar” di Milhaud, nonché della prima esecuzione assoluta de “ La figlia di Iorio” di Pizzetti).

“Don Pasquale” – aveva suggerito Parente – “col vuoto creato dalle dimissioni di Pannain, perché non vi mettete vicino Rubino Profeta che oltre a vantare notevoli doti di sano musicista, potrà esservi di grande utilità per la sua completa disponibilità da ogni altro impegno?”.

E la mattina del 10 agosto del 1961 feci il mio primo ingresso ufficiale nel nostro glorioso teatro.

Ricorderò perennemente quel giorno; sull’ampio terrazzo antistante gli uffici della Soprintendenza era ad attendermi Salvatore Di Costanzo, l’indimenticabile fratello del “commendatore” ( sempre con quell’appellativo Sasà Di Costanzo si rivolgeva al più anziano ed autorevole congiunto). Era con lui, in cordiale colloquio, il maestro Vincenzo Bellezza, altra indimenticabile figura di galantuomo e di artista impegnato in quel periodo per un “Mefistofele” estivo, allestito all’Arena Flegrea.

Dopo qualche parola di affettuoso esordio, fui introdotto nell’ampio salone ove, dietro un’antica scrivania stile impero, all’ombra di un’ampia tela raffigurante la “Morte di Ettore” dell’ottocentista Saia sedeva solennemente Don Pasquale, il più dinamico ed appassionato organizzatore teatrale del nostro tempo, un uomo che fra i pregi ed i difetti – più i primi che i secondi – merita, tutto sommato, un capitolo a parte.

indice