Una scena di "Luisa e Claudio" di Mercadante.

L'archeologo di S. Pietro a Maiella

QUEL MELODRAMMA SEMBRA NUOVO DI ZECCA

Da circa 20 anni il maestro Rubino Profeta si è dedicato al ripescaggio ed al rammodernamento di opere liriche della cui validità i contemporanei non se ne erano accorti.

Donizetti, Bellini, Verdi, Rossini, Pacini hanno riscosso nuovi successi ed altri applausi

di Vittorio Paliotti -  Foto di FOTOSUD Giacomo Laurenzio

________________________________________________________________

E’ un lavoro che svolgo soprattutto con gli occhi: un po' con gli occhi aperti, anzi sgranati, fissi su ingiallite carte e su enigmatici righi musicali, e un po' con gli occhi chiusi, materialmente chiusi, in modo che la mente possa meglio concentrarsi, come in un sogno, su voci e suoni, su scenografie e su effetti teatrali Ecco il tenore che conclude la sua romanza, eccolo con le braccia protese; ed ecco l'orchestra che incalza…… Cosa fa il pubblico, cosa fa? Vedo il pubblico alzarsi in piedi ed applaudire: l'opera, in questo caso, è valida, merita che io ci lavori intorno un anno per l'opportuna revisione, merita che venga sottratta all'oblio dei secoli. Se, invece, vedo il pubblico rimanere freddo, impassibile, annoiato, ripongo il manoscritto nello scaffale in cui giaceva. E' così, da una sorta d'intuito prima ancora che da una fatica, che nascono le mie revisioni di vecchie opere liriche. Voglio aggiungere che io ho riscoperto e portato al successo opere di grandi maestri, compresi Donizetti, Rossini, Bellini e Verdi, le quali in occasione della prima presentazione al pubblico avevano fatto fiasco. Quale operazione ho compiuto? Standomene ad occhi chiusi, ho individuato i punti in cui quelle opere erano carenti, me ne sono chiesto il perché, ho dato le risposte, e il miracolo si è verificato».

Il maestro Rubino Profeta, un settantenne vispo e inquieto, dice queste cose un po' ad occhi aperti e un po' ad occhi chiusi. Ha, davanti a sé, su un alto leggio, le fotocopie del manoscritto originale della «Ione» di Enrico Petrella che, qualche settimana fa, revisionata da lui, è andata in scena al «Municipale» di Caracas; in un angolo, su una poltrona, il nutrito manoscritto del «Diluvio universale» di Donizetti che, fra non molto, da lui scoperto e revisionato, rivivrà alla «Fenice» di Venezia; dietro il vetro di una libreria le partiture, almeno seicento pagine ciascuna, di una dozzina di opere da lui revisionate e che sono state rappresentate al «San Carlo» e in altri teatri lirici italiani e stranieri. Conosciuto ormai dappertutto come «l'archeologo del melodramma», Rubino Profeta, consulente artistico del teatro «San Carlo», già docente di armonia al conservatorio di San Pietro a Maiella, autore di opere, di balletti, di pezzi sinfonici, di pezzi da camera, di musica sacra, si è dedicato da circa vent'anni a questa parte al ripescaggio e al rammodernamento di opere liriche della cui bellezza, per un motivo o per un altro, i contemporanei non si erano accorti. Per merito di Rubino Profeta, insomma, molti grandi compositori hanno riscosso, a un secolo o a un secolo e più dalla loro morte, nuovi successi e applausi che in vita gli erano stati negati. Opere come «Roberto Devereux» di Donizetti, che nel 1837 aveva avuto una fredda accoglienza, o come la «Zaira» di Bellini, che nel 1829 era andata malissimo, o come lo «Stiffelio» di Verdi che nel 1850 era caduta quasi clamorosamente, o come «Zelmira» di Rossini che nel 1822 aveva lasciato insoddisfatti gli spettatori, opere ormai sepolte e dimenticate, hanno fatto, nella versione di Profeta, il giro trionfale dei maggiori teatri lirici italiani e talvolta d'Europa.

L'approccio di Rubino Profeta a questo tipo di attività artistica che conta, in tutto il mondo, pochissime vestali, fu quanto mai curioso e, nello stesso tempo, indicativo di quel suo intuito che lui definisce «un semplice dono di Dio». Racconta infatti Rubino Profeta: «Nel 1963 mi recai nella biblioteca del conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella per esaminare lo spartito originale dell"'Alzira" di Verdi che al "San Carlo" si era pensato di ripropone. La biblioteca del nostro conservatorio è, come è noto, una delle fonti più autentiche per l'esatta puntualizzazione di uno sterminato patrimonio musicale e bibliografico relativo ad oltre tre secoli della vita artistica del nostro Paese. Scovai, dunque, lo spartito dell"'Alzira" di Verdi, incominciai a leggerlo, poi chiusi gli occhi. Assistetti a un fiasco, nella mia mente, e decisi subito di ripone quello spartito nello scaffale da cui lo avevo tratto. E debbo dire che, a occhi chiusi, avevo visto giusto: ripresa, qualche anno dopo, da un altro teatro, l"'Alzira" cadde, come io avevo previsto».

Ma ormai Rubino Profeta si era appassionato a questo tipo di ricerche e volle continuare. «Nel rigirarmi con meticolosa cura e con commossa trepidazione - racconta - nella selva degli ingialliti manoscritti della biblioteca di San Pietro a Malella, il mio occhio cadde sulla partitura del "Roberto Devereux" di Gaetano Donizetti, scritta a Napoli nel 1837. Ne lessi alcune pagine, chiusi gli occhi, e vidi un trionfo. Decisi, così, di darmi anima e corpo alla revisione di quest'opera. E del resto Gaetano Donizetti, bergamasco di nascita ma napoletano per sua scelta, meritava pienamente la mia attenzione».

Effettivamente Gaetano Donizetti ebbe un posto di grande rilievo nella cultura musicale napoletana del primo Ottocento. Chiamato nel 1822 da Domenico Barbaia impresario del «San Carlo», Donizetti rimase a Napoli fino al 1837; scrisse lavori non solo per il «San Carlo», ma anche per il «Teatro Nuovo» e occupò la cattedra di composizione al conservatorio di San Pietro a Maiella; e, se nel 1837 Donizetti andò via da Napoli, lo fece non tanto perché perseguitato dal dolore per la morte della moglie, quanto perché irritato dal fatto che, nella direzione del conservatorio, il re Ferdinando Il gli aveva preferito il pugliese Saverio Altamura. A Napoli Gaetano Donizetti compose una quantità di lavori, fra opere buffe; melodrammi e perfino canzoni (gli è stata attribuita anche la paternità musicale di «Te voglio bene assaie», prima canzone piedigrottesca); l'ultima opera che Donizetti scrisse a Napoli fu, appunto il «Roberto Devereux» rappresentata al «San Carlo» il 29 ottobre1837.

«Proposi dunque al "San Carlo" di rappresentare il "Roberto Devereux" e, avutone il consenso, mi misi subito a fare le ricerche per passare poi alla revisione. Già il lavoro di ricerca si profilò durissimo. In una delle tante biografie di Donizetti avevo letto che a Parigi, nel rimettere in scena il "Devereux" al "Theatres des italiens", il maestro vi aveva aggiunto una sinfonia e aveva apportato delle modifiche alla cabaletta del duetto fra Roberto ed Elisabetta. Io desideravo, dunque, soprattutto rintracciare la sinfonia, ma non ne trovavo traccia. La copia che avrebbe dovuto possedere, a Milano, l'editore Ricordi era andata distrutta sotto un bombardamento e del resto il manoscritto autografo del "Roberto Devereux" esistente presso il conservatorio di San Pietro a Maiella, non conteneva affatto quella sinfonia. Mi diedi dunque febbrilmente al lavoro per la ricerca di questo prezioso elemento ed ebbi inaspettatamente la fortuna di ritrovarne un esemplare presso il Museo Donizettiano di Bergamo. Le note dell'inno inglese, in apertura del brano, successivamente sviluppate in forma variata, ed il tema di un'aria di "Roberto", usato come seconda idea della sinfonia, mi dettero la prova inconfutabile dell'autenticità del pezzo. Nello stesso Museo Donizettiano di Bergamo ebbi la fortuna di ritrovare anche la redazione definitiva del duetto; inclusi dunque entrambi i brani nella mia revisione. Dopo un anno di snervante lavoro, la nuova "prima" di quest'opera ebbe finalmente luogo, al "San Carlo", naturalmente: era la sera del 2 maggio 1964. Il successo mi ripagò di tutte le fatiche cui mi ero sobbarcato».

Ma in cosa consiste questo lavoro di revisione, questo lavoro che, come è nel caso appunto di Rubino Profeta, riesce a ridare vitalità a opere che, in molti casi, parevano morte subito dopo esser nate? «Innanzitutto - spiega Profeta - si tratta di procedere alla stesura dell'intera partitura nel costume moderno e quindi, per prima cosa, bisogna segnare gli strumenti a fiato in testa e quelli ad arco in basso, là dove nelle epoche passate si usava segnare in testa solo violino e viola, mentre violoncello e contrabbasso venivano segnati giù. Bisogna, poi, riempire dei vuoti: talvolta, specie nei momenti di piena orchestra, la partitura originaria non indica tutti gli strumenti e tutte le voci perché, nelle epoche passate, non esistevano i fogli a trentadue righi e quindi l'autore era costretto a scrivere le parti di alcuni strumenti, come fagotti, trombe e tromboni, al termine della partitura, in una sorta di appendice; e molte volte questi fogli aggiuntivi sono andati dispersi e bisogna, quindi, operare un autentico lavoro di restauro che richiede un vero e proprio intuito musicale. Il revisore deve poi intervenire là dove l'autore è stato negligente: molti compositori, e in particolare Donizetti che scriveva con fretta leggendaria, avevano l'abitudine di lasciare, specie nei casi di ripetizioni, intere pagine bianche, con la semplice annotazione di "come prima"; e queste pagine bianche bisogna pur colmarle e non sempre l'indicazione di "come prima" risolve ogni cosa».

L'opera del revisore diventa più importante nel momento in cui si tratta di suggerire l'utilizzazione di strumenti moderni al posto di strumenti ormai superati. Spiega Profeta: «Questo vale soprattutto per i cosiddetti strumenti traspositori, e specie per i corni, che nelle epoche passate non avevano la facilità di mutazioni che hanno oggi. Un esempio: il professore di corno che per passare da una tonalità all'altra era costretto a cambiare "ritorto" perdeva del tempo e non era in grado di suonare continuamente; il mezzo moderno ci dà invece la possibilità di colmare tali lacune. Lo stesso vale per i timpani, che un tempo avevano un accordatura faticosa che non consentiva un cambiamento rapido di tonalità. A tutto questo deve badare il revisore il quale sa che, oggi, l'orchestra ha a disposizione strumenti sofisticatissimi che consentono di passare da un tono all'altro con sorprendente rapidità. Io debbo fare, in questi casi, quello che avrebbe fatto l'autore se anche lui si fosse potuto giovare di quegli strumenti di cui disponiamo noi».

Fin qui, però, siamo alla parte in un certo senso tecnica. L'apporto del revisore diventa ben più impegnativo quando si tratta di entrare fin dentro il tessuto della partitura.

«Affinché il lavoro possa prendere un cammino sicuro», spiega Profeta, «bisogna individuare con precisione i motivi che hanno determinato l'oblio di un'opera per tanto tempo. Se c'è, ad esempio, qualche lungaggine che ha provocato noia nello spettatore o se vi sono scene superflue o ripetizioni inutili, bisogna tagliare con severità allo scopo di dare scioltezza allo spettacolo. Ultimo e forse più importante compito del revisore, nel caso che s'imbatta in un'opera rappresentata più volte quando ancora l'autore era in vita, è quello di confrontare attentamente le varie edizioni e saper cavare, da esse, gli squarci migliori. E' quello che mi è capitato col "Diluvio universale" che, dato a Napoli nel 1830, venne in un secondo momento ripresentato a Parigi con alcune modifiche: mentre ho creduto opportuno di mantenere l'inizio della sinfonia dell'edizione napoletana che mi è sembrata la più aderente al soggetto biblico, così ho preferito riportarmi all'edizione parigina per il concertato finale del secondo atto che Donizetti aveva sviluppato maggiormente. Si è trattato, insomma, di un vero e proprio lavoro di montaggio».

Dopo aver dunque iniziato il suo lavoro di revisore con il «Roberto Devereux» di Donizetti, sull'onda del successo riportato da quest'opera al «San Carlo», Rubino Profeta si immerse maggiormente nell'archeologia del melodramma e per un anno intero, fra il 1964 e il 1965, si diede a studiare l'attività di Gioacchino Rossini a Napoli. Rossini, come è noto, giunse a Napoli nel 1815, scritturato da Domenico Barbaia, e fuggi poi con l'amante dell'impresario, il soprano Isabella Colbram, nel 1822, dopo la rappresentazione al «San Carlo» di «Zelmira». E anzi, sulla presenza di Rossini a Napoli esiste tutta una gustosa aneddotica raccolta da Alessandro Dumas nel suo libro «Il corricolo». Dumas sostenne addirittura che Barbaia, per indurre Rossini a compone un'opera dovette rinchiuderlo in un palazzo e murarne l'ingresso facendogli pervenire i viveri tramite un «panaro». Scavalcando in pieno l'aneddotica, Rubino Profeta procedette alla revisione, appunto, della «Zelmira», che riscosse un grande successo. Passò poi, sempre per il «San Cado» alla revisione della «Saffo» di Pacini, e fu sull'eco di questi successi che incominciò a ricevere inviti da altri teatri lirici, italiani e stranieri, affinché traesse, dal ripostigli del conservatorio di San Pietro a Maiella, altre opere ingiustamente dimenticate.

Per il «regio» di Parma, Profeta condusse ricerche sull'attività che Giuseppe Verdi svolse a Napoli. il «cigno di Busseto» venne a Napoli una prima volta nel 1845 e scrisse l'«Alzira», poi tornò a Napoli nel 1849 per la messa in scena della «Luisa Miller»; e sempre per il «San Carlo» scrisse quel «Ballo in maschera» che inizialmente s'intitolava «Gustavo III» e che per l'ingerenza della censura borbonica fu costretto a far rappresentare, anziché a Napoli, all'«Apollo» di Roma.

Nel conservatorio di Napoli c'è molto materiale relativo a Giuseppe Verdi, e Rubino Profeta provvide alla revisione di «Stiffelio». Racconta Profeta: "Stiffelio" figurava nel non lungo elenco dei clamorosi insuccessi del grande musicista; occorreva dunque penetrare a fondo le ragioni che determinarono la stroncatura di un'opera alla quale l'autore inizialmente credeva ma la cui musica ritenne opportuno più tardi di rimaneggiare adattandola alle esigenze di un nuovo libretto l"'Aroldo". Mi accorsi subito che le fondamentali difficoltà derivavano dalla farragine del soggetto, che vedeva al centro dell'azione la figura di un pastore protestante che non soltanto aveva moglie, ma che nel corso dell'azione appariva tradito ed impugnava addirittura la spada vendicatrice. Altri avrebbero forse desistito, ma io non tentennai: avevo infatti riscontrato nello spartito pagine bellissime di sana e spontanea vena creativa che non soltanto riapparivano false, trasferite nel rimaneggiato "Aroldo", quanto alcune di esse, come la stupenda ultima scena della predica, sarebbero risultate autentiche novità, dal momento che Verdi non ebbe mai più occasione di collocarle altrove».

«Stiffelio» rimesso in piedi da Rubino Profeta, andò in scena, a Parma, nel dicembre del 1968 e il successo fu pieno e indiscusso. Nell'anno successivo, Profeta fornì a «La Fenice» di Venezia, la revisione del «Belisario» di Donizetti, la cui prima era stata data nella stessa Venezia nel 1836. «Dopo la rappresentazione curata da me», racconta Profeta, «il maestro Gianandrea Gavazzeni, direttore d'orchestra, mi confessò che alla lettura dello spartito non aveva intravisto quelle bellezze che, invece, vennero fuori durante l'esecuzione. Io quelle bellezze, le avevo viste, con gli occhi chiusi, fin dal primo esame della scolorita partitura».

Da allora, Rubino Profeta divenne, per antonomasia, l'archeologo del melodramma italiano. E anzi, in particolare, divenne il resuscitatore di Gaetano Donizetti del quale, fra l'altro, riportò alla luce opera come «Caterina Cornaro» e «(Gemma di Vergy».

«Ammetto», dice Profeta, «che ho un debole per Donizetti, il bergamasco che volle farsi napoletano fino al punto di scrivere musiche per canzoni napoletane. In effetti io ho sempre amato Gaetano Donizetti. L'ho amato fin dagli anni della mia giovinezza, quando mio nonno (forse per via di una mia certa rassomiglianza con una scolorita fotografia del maestro adolescente, forse anche per la allucinata affermazione di un vecchio amico di famiglia, appassionato di scienze medianiche, che sosteneva che l'anima di Donizetti fosse passata nel mio corpo) quando mio nonno, dicevo, scherzosamente mi chiamava "Don Gaetano". il mio amore non era ancorato, però, soltanto a queste stravaganze. Già studiavo musica e già strimpellavo spartiti vecchi e nuovi di ogni genere e di ogni provenienza, italiana o straniera, quando un giorno, mentre percorrevo la allora affollatissima via Corsea, rimasi impietrito a guardare una piccola, vecchia lapide, posta sulla facciata di un modestissimo palazzetto, ove si leggeva in scialbi caratteri che in quella casa Gaetano Donizetti aveva composto "Lucia di Lammermoor". Fu allora che, per la prima volta, chiusi gli occhi e vidi un pubblico plaudente in una sala piena di luci. Quando anni dopo, andai per la prima volta al "San Carlo", mi accorsi che era identico a quella sala che avevo visto io, quel giorno, ad occhi chiusi».

Vittorio Paliotti

La casa di via Nardones ove Gaetano Donizetti scrisse il “Roberto Devereux”

Il palazzo di via Montecalvario ove abitò Giovanni Paisiello nel 1816

una pagina autografa donizettiana

Il frontespizio originale del “Diluvio Universale” di Donizetti

La casa di via Filangieri dove abitò e morì F.S. Mercadante

Il punto di via Chiatamone ove esisteva l’albergo “Crocelle” in cui abitò Verdi

Indice articoli